Flessibilità, riduzione dei costi e produttività: obiettivi da raggiungere
Quando le aziende operanti in diversi settori affrontano temi come riduzione dei costi e della produttività, limitandosi a considerazioni di carattere generale, ci si accorge che sono tutte d’accordo. Entrando nello specifico, tuttavia, non si possono che rilevare sostanziali differenze correlate, essenzialmente, alla prevalenza di un elemento sull’altro in determinati settori produttivi e commerciali. Tanto per fare un esempio, nelle aziende di piccole dimensioni dei settori dei pubblici esercizi e del commercio si è pensato negli ultimi quindici anni che il miglioramento dei conti passasse attraverso una riduzione dei costi correlata alla ricerca “quasi spasmodica” della tipologia di contrattualizzazione del lavoro che costasse di meno Lo stesso apprendistato che, nelle intenzioni del Legislatore, ha lo scopo di agevolare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro attraverso la contribuzione agevolata e la retribuzione di ingresso minore del qualificato, è stato visto come uno strumento utile soltanto per abbattere, in maniera significativa, il costo del lavoro.
Indubbiamente, è ingeneroso soffermarsi soltanto a questo aspetto, non dimentichiamo la crisi economica susseguente al 2008, ma la molla principale in quei settori oltre che in altri è stato il raggiungimento di una maggiore redditività e produttività legata, essenzialmente, alla riduzione dei costi del personale.
Credo, però, che il discorso, abbastanza complesso, vada affrontato in modo diverso partendo da una breve analisi delle normative che ci hanno accompagnato negli ultimi anni.
Cominciamo dal Jobs act, all’interno del quale, a mio avviso, non vanno ricompresi soltanto la legge n. 183/2014 e i successivi decreti attuativi, ma anche altre norme importanti che, nella sostanza, hanno fatto da “corollario” ma che vanno assumendo sempre maggiore importanza. Mi riferisco, essenzialmente, alle norme che favoriscono la contrattazione di secondo livello contenute nelle due ultime leggi di Stabilità.
È indubbiamente facile pensare che, con la fine dell’obbligo della causale nei contratti a tempo determinato, sia venuto meno un grosso ostacolo alla organizzazione del lavoro: basti pensare a quanti rapporti, per carenza di motivazioni, hanno portato, prima del 2014, ad un “irrigidimento” della tipologia contrattuale con molti casi di trasformazione a seguito di decisioni giudiziali. Ora, per effetto delle novità introdotte con il D.L.vo n. 81/2015 anche per quel che riguarda il numero delle proroghe (cinque nell’arco temporale di trentasei mesi complessivi) o la possibilità di trovare soluzioni più avanzate attraverso la contrattazione collettiva anche di secondo livello (si pensi alla percentuale complessiva), il contratto a tempo determinato, nella sua configurazione attuale, si può ben definire un forte strumento di flessibilità, soprattutto se coniugato al part-time.
Nella logica della utilizzazione flessibile del personale, una attenzione particolare va riservata, a mio avviso, al nuovo art. 2103 c.c., quale scaturito dalla riforma avvenuta con il D.L.vo n. 81/2015.
Non intendo riferirmi tanto al demansionamento volontario, stabilito dalle parti in sede protetta, quanto a due ipotesi particolarmente importanti. Con la prima, si supera il concetto di “mansioni equivalenti” a cui il lavoratore può essere adibito e che molto ha pesato nei contenziosi giudiziari: ora il dipendente può essere utilizzato “a scorrimento”, by-passando la necessità di qualunque accordo, in mansioni riferibili allo stesso livello della categoria legale di inquadramento.
Con la seconda, si consente al datore di lavoro in presenza di una variazione degli assetti organizzativi interni che incidono sulla posizione del lavoratore, di procedere, nell’ambito della categoria legale di appartenenza, alla retrocessione per un livello, con il mantenimento della retribuzione, ma con la perdita delle indennità legate alla specifica funzione.
Ma, il Jobs act è, sostanzialmente, conosciuto per i contenuti del D.L.vo n. 23/2015 che per i lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015, ha fortemente cambiato la tutela in caso di licenziamento, innovando l’art. 18 della legge n. 300/1970, già “ritoccato” nel 2012 con la legge n. 92.
Si è cercato, con queste disposizioni, limitando l’ambito di applicazione della tutela reale, di fissare “costi certi” in presenza di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, soggettivo o giusta causa ritenuto illegittimo dal giudice il quale non ha più alcun potere di reintegra (fatti salvi i casi di nullità previsti dalla legge), ma soltanto di condanna del datore di lavoro al pagamento di una indennità di natura risarcitoria il cui ammontare è già stato definito dal Legislatore (due mensilità dell’ultima retribuzione utile ai fini del TFR per ogni anno di anzianità aziendale, partendo da una base di quattro, fino a ventiquattro mensilità, con riduzioni degli importi alla metà per le piccole imprese).
Questo è stato ed è il punto di maggior criticità con parte delle organizzazioni sindacali che in molte imprese hanno chiesto il ritorno, con accordo sindacale, alle vecchie tutele, magari mettendo sul piatto della bilancia, altre forme di flessibilità legate ai turni o alle prestazioni di lavoro straordinario.
Proseguendo nella veloce carrellata delle novità dell’ultimo biennio credo che una menzione particolare vada riservata al nuovo concetto di produttività quale emerge dalle leggi n. 208/2015 e 232/2016 e dai chiarimenti intervenuti sia con il decreto interministeriale che con le interpretazioni dell’Agenzia delle Entrate.
La produttività, l’innovazione e la competitività che da quest’anno interessano anche lavoratori con reddito medio alto, debbono essere frutto di un accordo sindacale di secondo livello ma, soprattutto, debbono essere agganciati ad obiettivi misurabili con criteri oggettivi. Questo, almeno stando alle esperienze registrate, sembra portare ad un duplice effetto: da un lato alla misurazione effettiva dei miglioramenti ai quali fanno da contraltare le somme fino al un possibile tetto massimo di 3.000 euro (4.000 in alcune ipotesi) corrisposte con la tassazione ridotta del 10%, dall’altro alla possibilità di convertire tali importi in misura di welfare abbastanza rilevanti, sotto l’aspetto qualitativo (servizi alla persona, ai familiari, previdenza complementare, ecc.). Tutto questo, insieme ad altre componenti, è, indubbiamente, un fattore che spinge ad un miglioramento della vita aziendale.
Il confronto con le organizzazioni sindacali interne, pur se, talora, connotato da spunti di vivacità, può essere produttivo di una migliore organizzazione sindacale non soltanto per gli obiettivi legati alla detassazione, ma anche per tutte quelle materie che sia il contratto collettivo che la norma affidano alla contrattazione di secondo livello. È soltanto per fare un esempio che ritengo opportuno citare le tipologie contrattuali declinate dal D.L.vo n. 81/2015, lo stesso art. 8 della legge n. 148/2011 (peraltro, osteggiato da alcune sigle sindacali) che consente, a fronte di “obiettivi di scopo“ ben determinati, di derogare a norme di legge con il solo limite rappresentato dalla Costituzione e dagli impegni presi dal nostro Paese in ambito comunitario e internazionale.
Altro fattore di flessibilità gestionale delle risorse è rappresentato dal c.d. “lavoro agile” ove, la contrattazione collettiva di secondo livello, in alcune grandi realtà produttive, ha precorso i tempi del Legislatore. Lo “smart-working” pensato da quest’ultimo richiede soltanto un accordo tra il datore di lavoro e il lavoratore (o la lavoratrice). Si tratta di una modalità di esplicazione dell’attività (e non di un’altra tipologia contrattuale) che, se ben attuata, consente, in un’ottica di miglioramento della produttività, di coniugare le esigenze aziendali con quelle del dipendente. Tanto per fare un esempio, per lavori che si possono fare o impostare “da remoto”, anche per fasi o cicli di attività, è possibile concordare che la prestazione, nel rispetto dei limiti dell’orario di lavoro giornaliero o settimanale, si svolga parzialmente al di fuori del perimetro aziendale. Si pensi come, attraverso tale modalità, si possono risolvere problemi di assenze per malattia che per altre, a vario legittimo titolo.
Qui, indubbiamente, la norma appena approvata dal Parlamento ha lasciato “scoperti” alcuni punti importanti quali la responsabilità datoriale per infortuni in un locale non scelto dall’azienda e sul quale non ha alcun potere di regolazione. Probabilmente saranno i chiarimenti amministrativi, richiesti dallo stesso Parlamento con un ordine del giorno approvato in Senato, a chiarire le questioni rimaste in sospeso, anche se sarebbe stato oltre modo giusto che il tutto fosse avvenuto attraverso una disposizione di rango legislativo, soprattutto alla luce dello scarso “feeling” che corre tra la Magistratura giudicante e le circolari ministeriali.
Ma, flessibilità della organizzazione, maggiore produttività e minori costi non passano, soltanto, attraverso le strade che ho appena, fugacemente, descritto: ce ne sono altre che si rinvengono nelle pieghe contrattuali e, soprattutto, nel rapporto continuo, pur nella distinzione dei ruoli, con le organizzazioni sindacali.
Parlare, tuttavia, di “minori costi” significa, a mio avviso, razionalizzazione degli adempimenti e recupero di quanto, indebitamente, speso in più a fronte di normative, rinvii, interpretazioni amministrative degli organi dell’Amministrazione centrale e degli Istituti previdenziali. Molto spesso, le imprese, mal districandosi, in perfetta buona fede, tra i meandri della nostra burocrazia, versano agli Istituti previdenziali contribuzioni e premi assicurativi ben maggiori di quelli dovuti. Se il comportamento si protrae per anni e il numero dei dipendenti è particolarmente elevato, si fa presto a raggiungere cifre alquanto notevoli: il tutto, in una situazione ove, sicuramente, gli Enti percettori, sempre pronti a rivendicare le minori cifre corrisposte, non rimettono, in maniera spontanea (ossia, senza richiesta dell’impresa interessata) il “quantum” percepito indebitamente.
In questi casi non ci si riferisce, soltanto, alle maggiorazioni dei premi e dei contributi, ma anche alla mancata utilizzazione di “bonus contributivi”, alle agevolazioni che sono legate al rispetto dei principi comunitari (si pensi, ad esempio, al “de minimis” o all’incremento occupazionale che, a mio avviso, andrebbe rivisto nelle voci che lo compongono in relazione a istituti diversi che si sono succeduti negli ultimi tempi) o di quelli previsti dalla normativa italiana di riferimento (art. 1, commi 1175 e 1176 della legge n. 296/2006) e dal rispetto delle previsioni individuate dall’art. 31 del D.L.vo n. 150/2015.
L’efficacia del payroll passa attraverso una analisi dei costi complessivi delle prestazioni lavorative ove, grazie ad una evoluzione legislativa sempre più oscura, fatta di commi, di interpolazioni, di rinvii e di interpretazioni autentiche, al numero sempre crescente dei messaggi e delle circolari provenienti, soprattutto, dagli Istituti previdenziali ed alla difficoltà di “interfacciarsi” velocemente con gli stessi, le imprese si trovano ad affrontare recupero di indebiti, frutto della caotica situazione italiana.
Se a ciò si aggiungono altre questioni che ben conoscono i responsabili delle risorse umane legate ai cambiamenti organizzativi, alle modificazioni societarie, alla difficoltà che, spesso, si trova ad adeguare velocemente i sistemi informatici, il quadro si fa molto più chiaro e richiede soluzioni che passano, necessariamente, attraverso uno sviluppo delle risorse e del know how che sono in possesso di aziende, come Fiabilis, atte a garantire un supporto strategico e ad attivare la riduzione dei costi e recuperare l’indebito versato in un’ottica di assoluta qualità, nel pieno rispetto delle disposizioni legislative.
di Eufranio Massi
DIRETTORE DI www.dottrinalavoro.it
Bologna, 12 giugno 2017